Bestiario dei giorni di festa

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L’ultimo, bellissimo, libro di Gabriele Galloni. Una raccolta postuma che ci mostra un’altra faccia della poetica di Gabriele.

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  1. Paolo Pera

    SU BESTIARIO DEI GIORNI DI FESTA

    L’opera di cui si tratterà qui è l’ultima del giovane Gabriele Galloni, considerato da molti uno dei migliori poeti della sua generazione (che poi sarebbe anche la mia, lui dei ’95 ed io del ’96), l’opera postuma, la tal cosa mi richiede parecchia delicatezza; è però indubbio che Galloni, pur nella sua giovane età, già fosse un ottimo artigiano del verso, in specie dell’endecasillabo (principe dell’italica poesia), ciò in una marea di “versoliberisti” cacofonici, ma pure tra altri giovani già linguisticamente e metricamente dosati del pari – per esempio – di Mattia Tarantino, suo collega presso la rivista Inverso.

    Per arrivare all’opera, Bestiario dei giorni di festa (Ensemble, 2020), potremmo dire poco più di quanto già espresso da Ilaria Palomba in sede introduttiva, ossia che il Poeta tra queste terzine specchia l’uomo – i suoi vizi e le sue virtù – nell’animale, e presumibilmente anche sé stesso, sul modello del bestiario medievale. Operazione già svolta in epoca recente da Apollinaire, come tiene a specificare Galloni stesso; ma perché questo Bestiario sarebbe “dei giorni di festa”? Anche questo è svelato dal Poeta: «Ho provato a trasporre in una lingua moderna e precisa certi toni di Esopo come della poesia didascalica settecentesca. Senza mai naturalmente rinunciare all’ironia e al gioco», che, si sa, ha luogo anzitutto durante il tempo festivo. Ironia, sì, ma pacata; come pacata è tutta la poesia di Galloni: un’irrequietezza ammorbidita entro un verso che restituisce tiepide sensazioni di stupore ed estraneità (d’essere al mondo, aggiungeremmo; da qui il carattere estatico, l’«estate del mondo»). Il nostro compito sarà dunque quello di commentare certe “raffigurazioni” particolarmente significative del Bestiario, di dire poi dell’andamento complessivo di questo, e null’altro più.

    La verità è che, come amo fare, ho cercato di ricavare dalla lettura delle – chiamiamole così – “raffigurazioni” una o più immagini fisiche di quei tipi umani a cui Galloni avrà di certo potuto guardare per ispirarsi; tra queste il Poeta (come ogni versificatore fa) avrà spolverato un poco di sé? Indubitabile, ma non certo. Pensiamo per esempio a Il gatto: «“Non avrai altro Dio all’infuori di me”, / miagola il gatto. È rosso a chiazze bianche – / trema fortissimo senza perché», qui ho voluto vedere quel timor d’esserci che ha (celatamente) ogni soggetto egocentrico, soggetto che vuole però essere adorato come un Dio mentr’è altresì un mero Ego; pensiamo a Il riccio: «Tra gli aculei del riccio c’è la piana / di Giosafat, la valle del Giudizio; / di vivi meta e di spiriti tana», qui tenderei a vedere ancora un soggetto che – desiderando comprendersi – si esibisce nell’aspettativa di ricavare giudizi utili a questa necessità, per poter essere così appagato: buttarsi nella mischia, ossia questa valle che in qualche modo mi ricorda i social network, sarà come saltare nelle spine (raccogliendo qualcosa di gradito, ma dolorosamente). Sempre su questa linea Lo struzzo: «Andando sempre avanti tutto il mondo / ti dimenticherà. Lo struzzo /preferisce girare in tondo», chi vive dunque sempre e solo compiendo rivoluzioni su sé stesso passerà tra gli affetti del mondo? Notevole poi La pecora: «Beve la pecora allo stesso fiume / di Eraclito; ma non è sazia mai, / ché l’acqua è troppo capriccioso nume», la pecora si disseta con ciò che passa? Con la “capricciosa” finzione quotidiana, parimenti al popolo del web, i ghiotti di mainstream? Potentissima Il maiale, a mio vedere il soggetto ipernarcisista: «Il maiale divora le carcasse / dei suoi simili. Si fa il bagno nei liquidi / mortuari; è sempre il primo della classe», questa sa molto d’invettiva verso quei figuri che cannibalizzano i propri simili riciclandogli le frasi e le idee, chi si fa bello (e che cerca di guadagnare like – sempre sui soliti social –) cantando la morte di chicchessia, chi insomma deve sempre brillare a spese di qualcun altro. L’oca: «L’oca conosce adesso la sua morte – / tutto sommato la prende benino. / Chiude lei stessa, una ad una, le porte», è forse costei chi si apparta per sparire, non lasciandosi confortare da un’umanità incapace, attonita? La medusa – l’unica poesia d’un solo verso –: «La medusa è un neurone dell’Oceano», stupenda intuizione che porta a domandare quanti neuroni stiano nell’Oceano, nel Tutto… Il bradipo: «Ha come l’impressione, tanto è lento, / di vivere più a lungo. Un solo gesto / del bradipo è il più vivo tra i memento / mori», esso è forse chi si concede la lentezza (festina lente) per fuggirlo il memento mori? Fuggirlo senza mai scordarlo, beninteso. Eccetera, eccetera.
    Andiamo poi verso la fine del volume, dove le “raffigurazioni” non sembrano più rimandare a tipi umani più o meno ridicoli, ma anzi paiono meri “divertissement cupi” un po’ fini a sé stessi – se erro mea culpa! –; per esempio Il pellicano («Sarà l’Apocalisse un pellicano / grandioso; bruceremo tutti nella / sua bocca spaventosa, piano piano»), Il serpente («Conosco un uomo – solo si masturba / con un serpente che gli vibra ovunque. / Non penso sia spiacevole; ti turba?») o Il piccione («Sul corpo spappolato di un piccione / sciamano mosche; la testa divisa / dal resto – presto in decomposizione»). Alcune composizioni palesano subito il significato celato, altre sembrano maggiormente misteriose, non tutte invece devono nascondere per forza segreti, ma semmai presagiscono qualcosa di funesto con fare malizioso, o al massimo provocano (per esempio Il serpente). Concluderei però con una geniale terzina La giraffa, che dà comunque un’immagine abbastanza speranzosa, augurio che il Poeta diede di certo a sé stesso: «Viene un giorno in cui la giraffa arriva / col suo collo al cielo – in barba a Darwin. / Tra le altre bestie più morta che viva».

    Paolo Pera

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