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La poesia di Luigi Pacioni è, come la sua pittura, fantastica e visionaria. Contrapponendo allo schema culturale occidentale, basato sulla priorità del pensiero logico-discorsivo, la dimensione notturna e misteriosa dell’essere, egli ha inteso collocarsi nella prospettiva indicata da Blake, Nerval e dal Surrealismo. L’immaginazione trionfa in questi versi, privilegiando la polisemia, ricorrendo costantemente al tropo, imperniando il linguaggio sulla potenza del simbolo. Tra le numerose figure simboliche presenti in queste poesie, centrale ed emblematica è la Colomba di Fuoco, figura femminea ambigua e polivalente. Solitamente, le immagini ornitologiche rinviano al desiderio dinamico di elevazione; la Colomba di Fuoco di Pacioni, nel momento in cui viene primieramente enunciata è accostata alla serpe (“Il poema/che ho scritto su di te/mi è stato ispirato/da una serpe e da una colomba”). Il serpente, bestia lunare, è evidente simbolo erotico e Artemide-Luna, prototipo della femminilità fredda e crudele, è archetipo della donna fatale. E la donna per il poeta assume spesso tratti ambivalenti, egli ne è potentemente attratto e al tempo stesso respinto e la sessualità è sovente intrisa di morte, o meglio, con essa è profondamente connaturata.
La poesia di Luigi Pacioni è, come la sua pittura, fantastica e visionaria. Contrapponendo allo schema culturale occidentale, basato sulla priorità del pensiero logico-discorsivo, la dimensione notturna e misteriosa dell’essere, egli ha inteso collocarsi nella prospettiva indicata da Blake, Nerval e dal Surrealismo. L’immaginazione trionfa in questi versi, privilegiando la polisemia, ricorrendo costantemente al tropo, imperniando il linguaggio sulla potenza del simbolo. Tra le numerose figure simboliche presenti in queste poesie, centrale ed emblematica è la Colomba di Fuoco, figura femminea ambigua e polivalente. Solitamente, le immagini ornitologiche rinviano al desiderio dinamico di elevazione; la Colomba di Fuoco di Pacioni, nel momento in cui viene primieramente enunciata è accostata alla serpe (“Il poema/che ho scritto su di te/mi è stato ispirato/da una serpe e da una colomba”). Il serpente, bestia lunare, è evidente simbolo erotico e Artemide-Luna, prototipo della femminilità fredda e crudele, è archetipo della donna fatale. E la donna per il poeta assume spesso tratti ambivalenti, egli ne è potentemente attratto e al tempo stesso respinto e la sessualità è sovente intrisa di morte, o meglio, con essa è profondamente connaturata.
«Si apre una contraddizione in chi affronta la lettura di questo importante contributo che Gëzim Hajdari offre alle nostre lettere, e non solo: la certezza di punti fermi, la caparbietà di un progetto a lungo termine, l’ostinazione a credere in valori millenari filtrati dalla invenzione scritta, pure a fronte di un mutamento epocale di paradigma, che tutto appiattisce, frammenta, disconosce e distrugge, proprio a far capo dallo status che l’autore porta, esibisce, coltiva: quello di esule, migrante, rifugiato, altro e diverso. Una condizione fluida e bloccata che i suoi testi poetici ribadiscono ad ogni strofa, essendo ormai l’esperienza di fuggitivo e sradicato divenuta elemento sostanziale del suo vissuto e del suo immaginario, vittima (come vedremo) con molti altri intellettuali “stranieri” di una tacita e sistematica espulsione che l’Italia pre e post salviniana ha caparbiamente attuato in nome anche di purezza e primato letterari, di fatto smentiti da questa stessa raccolta».
Fulvio Pezzarossa
Erranze, Home page, In vetrina, La poesia di Ensemble, Poesia
«Si apre una contraddizione in chi affronta la lettura di questo importante contributo che Gëzim Hajdari offre alle nostre lettere, e non solo: la certezza di punti fermi, la caparbietà di un progetto a lungo termine, l’ostinazione a credere in valori millenari filtrati dalla invenzione scritta, pure a fronte di un mutamento epocale di paradigma, che tutto appiattisce, frammenta, disconosce e distrugge, proprio a far capo dallo status che l’autore porta, esibisce, coltiva: quello di esule, migrante, rifugiato, altro e diverso. Una condizione fluida e bloccata che i suoi testi poetici ribadiscono ad ogni strofa, essendo ormai l’esperienza di fuggitivo e sradicato divenuta elemento sostanziale del suo vissuto e del suo immaginario, vittima (come vedremo) con molti altri intellettuali “stranieri” di una tacita e sistematica espulsione che l’Italia pre e post salviniana ha caparbiamente attuato in nome anche di purezza e primato letterari, di fatto smentiti da questa stessa raccolta».
Fulvio Pezzarossa
Cura e traduzione di Andrea Gazzoni.
In un paesaggio equatoriale di foreste, fiumi, rocce e regioni costiere, la poesia di Wilson Harris legge e sogna tracce di miti greci e amerindi, memorie di antiche migrazioni, cicatrici di schiavitù ed echi di violenze contemporanee. In un intrico in cui diventa incerto ogni confine, Harris esplora archetipi del bene e del male, della distruzione e della salvezza, articolando in un arazzo di visionarie il ritmo oscuro e luminoso delle vicende umane, il contrappunto di eternità e stagione . Da Ettore «eroe del tempo» che cade da mortale in una Troia trasfigurata in foresta pluviale fino a Odisseo che rifiuta l’immortalità offerta da Calipso cantando la «pietra che si scioglie / in carne», passando per Prometeo che «prigioniero incatenato al cielo» intravede «la marea vuota delle popolazioni della morte o della vita», Da eternità a stagione è una meditazione in versi sul mistero dell’umano.
Cura e traduzione di Andrea Gazzoni.
In un paesaggio equatoriale di foreste, fiumi, rocce e regioni costiere, la poesia di Wilson Harris legge e sogna tracce di miti greci e amerindi, memorie di antiche migrazioni, cicatrici di schiavitù ed echi di violenze contemporanee. In un intrico in cui diventa incerto ogni confine, Harris esplora archetipi del bene e del male, della distruzione e della salvezza, articolando in un arazzo di visionarie il ritmo oscuro e luminoso delle vicende umane, il contrappunto di eternità e stagione . Da Ettore «eroe del tempo» che cade da mortale in una Troia trasfigurata in foresta pluviale fino a Odisseo che rifiuta l’immortalità offerta da Calipso cantando la «pietra che si scioglie / in carne», passando per Prometeo che «prigioniero incatenato al cielo» intravede «la marea vuota delle popolazioni della morte o della vita», Da eternità a stagione è una meditazione in versi sul mistero dell’umano.
L’ultima, intensa, raccolta poetica del maestro Gëzim Hajdari.
Nuova raccolta per il poeta Gëzim Hajdari, uno dei maggiori autori contemporanei e direttore della collana “Erranze”.
In Delta del tuo fiume il punto di partenza è la presa d’atto dell’esilio fisico e spirituale del parlante il quale non abita più la patria, la Heimat del linguaggio e del paesaggio, perché ne è stato escluso mediante un ingiusto esilio; privato della propria patria, il parlante è costretto a peregrinare di terra in terra, e mescolare il proprio idioma con quello di altri paesi e di altre lingue. Quello che viene messo in atto è un vero e proprio “Canto dell’erranza”, in cui ogni cosa del poeta è tradotta in un’altra lingua, stavolta universale.
Il tono epico ci riconduce a un tempo primordiale e originario, nella quale egli esprime il canto della dimenticanza e del ricordo, dell’esilio e del ritorno impossibile, del tradimento e della fedeltà all’origine. Gëzim Hajdari è costretto così ad inseguire il proprio destino come un Fato pagano: è un canto della fedeltà e dell’infedeltà alla propria Lingua e al proprio popolo. Di qui il Tragico che incombe su ogni parola pronunciata, il giganteggiamento dell’io, il canto dell’addio («Vado via Europa, vecchia puttana viziata… Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua»). La forma di questa poesia è , infatti, calcata, alla maniera antica, su quella dell’epicedio e dell’inno. È la voce dell’oracolo antico che parla («Io venivo dai luoghi dell’oracolo di Delfi»), che si rivolge alla antica deità-femminile della «savana», del mondo femminile da lungo tempo scomparso che è compito dell’aedo riportare in vita.
L’ultima, intensa, raccolta poetica del maestro Gëzim Hajdari.
Nuova raccolta per il poeta Gëzim Hajdari, uno dei maggiori autori contemporanei e direttore della collana “Erranze”.
In Delta del tuo fiume il punto di partenza è la presa d’atto dell’esilio fisico e spirituale del parlante il quale non abita più la patria, la Heimat del linguaggio e del paesaggio, perché ne è stato escluso mediante un ingiusto esilio; privato della propria patria, il parlante è costretto a peregrinare di terra in terra, e mescolare il proprio idioma con quello di altri paesi e di altre lingue. Quello che viene messo in atto è un vero e proprio “Canto dell’erranza”, in cui ogni cosa del poeta è tradotta in un’altra lingua, stavolta universale.
Il tono epico ci riconduce a un tempo primordiale e originario, nella quale egli esprime il canto della dimenticanza e del ricordo, dell’esilio e del ritorno impossibile, del tradimento e della fedeltà all’origine. Gëzim Hajdari è costretto così ad inseguire il proprio destino come un Fato pagano: è un canto della fedeltà e dell’infedeltà alla propria Lingua e al proprio popolo. Di qui il Tragico che incombe su ogni parola pronunciata, il giganteggiamento dell’io, il canto dell’addio («Vado via Europa, vecchia puttana viziata… Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua»). La forma di questa poesia è , infatti, calcata, alla maniera antica, su quella dell’epicedio e dell’inno. È la voce dell’oracolo antico che parla («Io venivo dai luoghi dell’oracolo di Delfi»), che si rivolge alla antica deità-femminile della «savana», del mondo femminile da lungo tempo scomparso che è compito dell’aedo riportare in vita.
Memorie di città sorte e crollate nel deserto, la cattura e il viaggio tremendo sulle navi negriere, il lunghissimo esodo nel Nuovo Mondo sulla soglia tra una fine e un inizio, le generazioni di discendenti degli schiavi tra città e campagna e tra disperazione e attesa, e poi le partenze e i ritorni, Africa Europa America e Caraibi, dove il mondo 3 isole, il ritmo delle isole (non un’isola, ma la sequenza delle isole, come i rimbalzi di un sasso sull’acqua), il ritmo di una storia che si dilata e scava e cerca una via verso un presente dal quale non si torna indietro.
Su movimenti come questi Kamau Brathwaite ha intessuto la partitura di Diritti di passaggio (1967), libro che segna l’inizio di un itinerario poetico, storico, critico e visionario ancor oggi in corso. Molto lontano dallo stile
di quei primi versi, Brathwaite oggi continua ad esplorarne sempre più in profondit1 il nucleo generatore, per trovare nuove luci, nonostante l’età e i tempi, nonostante il buio che minaccia la fragilit1 e la resilienza del poeta e della sua cultura (Brathwaite infatti ci ricorda con insistenza che c’è un cultural lynching in corso: colonialismo e schiavitù continuano, e i dannati della terra non smettono di essere dannati).
Diritti di passaggio è curato da Andrea Gazzoni
KAMAU BRATHAITE È VINCITORE DELLA FORST MEDAL 2015
Memorie di città sorte e crollate nel deserto, la cattura e il viaggio tremendo sulle navi negriere, il lunghissimo esodo nel Nuovo Mondo sulla soglia tra una fine e un inizio, le generazioni di discendenti degli schiavi tra città e campagna e tra disperazione e attesa, e poi le partenze e i ritorni, Africa Europa America e Caraibi, dove il mondo 3 isole, il ritmo delle isole (non un’isola, ma la sequenza delle isole, come i rimbalzi di un sasso sull’acqua), il ritmo di una storia che si dilata e scava e cerca una via verso un presente dal quale non si torna indietro.
Su movimenti come questi Kamau Brathwaite ha intessuto la partitura di Diritti di passaggio (1967), libro che segna l’inizio di un itinerario poetico, storico, critico e visionario ancor oggi in corso. Molto lontano dallo stile
di quei primi versi, Brathwaite oggi continua ad esplorarne sempre più in profondit1 il nucleo generatore, per trovare nuove luci, nonostante l’età e i tempi, nonostante il buio che minaccia la fragilit1 e la resilienza del poeta e della sua cultura (Brathwaite infatti ci ricorda con insistenza che c’è un cultural lynching in corso: colonialismo e schiavitù continuano, e i dannati della terra non smettono di essere dannati).
Diritti di passaggio è curato da Andrea Gazzoni
KAMAU BRATHAITE È VINCITORE DELLA FORST MEDAL 2015
Finalmente tradotta in italiano la raccolta vincitrice del Premio Feronia 2009.
Finalmente in Italia una raccolta poetica di Gémino H. Abad, il più importante poeta della Filippine, paese la cui letteratura è ancora sconosciuta nel nostro paese. Sesto volume della collana Erranze diretta da Gëzim Hajdari, Dove le parole non si spezzano, è un viaggio poetico nell’opera di Abad dove si affro ntano i temi a lui più cari: la questione dell’uomo, la pace e la giustizia umana. Per lui, come per altri poeti filippini, non è stato facile, infatti, vivere e scrivere per decenni sotto la famigerata dittatura di Marcos. Nel 2009 Abad ha ricevuto, in Italia, il Premio Feronia, uno dei riconoscimenti più importanti per quanto riguarda la poesia.
Traduzione di Andrea Gazzoni e postfazione di Carla Locatelli.
Finalmente tradotta in italiano la raccolta vincitrice del Premio Feronia 2009.
Finalmente in Italia una raccolta poetica di Gémino H. Abad, il più importante poeta della Filippine, paese la cui letteratura è ancora sconosciuta nel nostro paese. Sesto volume della collana Erranze diretta da Gëzim Hajdari, Dove le parole non si spezzano, è un viaggio poetico nell’opera di Abad dove si affro ntano i temi a lui più cari: la questione dell’uomo, la pace e la giustizia umana. Per lui, come per altri poeti filippini, non è stato facile, infatti, vivere e scrivere per decenni sotto la famigerata dittatura di Marcos. Nel 2009 Abad ha ricevuto, in Italia, il Premio Feronia, uno dei riconoscimenti più importanti per quanto riguarda la poesia.
Traduzione di Andrea Gazzoni e postfazione di Carla Locatelli.
Il nuovo ospite di Erranze è Luigi Manzi, un poeta italiano esule in patria che ha deciso di condividere il proprio destino umano e letterario con altri esuli stranieri.
La voce alta e drammatica, quasi oracolare, che si esprime nei suoi versi sovrasta le rovine di un mondo arcaico e rurale, divenuto memoria di se stesso. Un mondo che sta scomparendo per lasciare posto all’inesorabile avanzata dell’alienazione urbana, specchio opaco di una globalizzazione disumanizzante. Il disagio e il male di vivere che vengono generati dal conflitto perenne fra queste due realtà e modi di essere segnano una profonda, terribile lacerazione del tempo vissuto; come pure la sensazione che la parola poetica sia incapace di rimarginare le ferite. Fuorivia, scritto in uno stato di elevata percezione, è in fondo un esilio dentro gli inferi dell’io centrale del poeta, laddove i conflitti risorgono in forme e figure inquietanti. Il libro è insieme testimonianza e presagio. Tanto da fare di Manzi l’unica voce, nel panorama della poesia contemporanea italiana, capace di rinnovare la tradizione visionaria.
Da sempre al di fuori delle gerarchie ufficiali, Manzi appartiene all’ultima generazione dei classici italiani che fanno grande la poesia di questo Paese, ormai costretto dagli spasmi di una grave crisi sociale e morale a ripensare i limiti e l’orizzonte della modernità.
Gëzim Hajdari
Il nuovo ospite di Erranze è Luigi Manzi, un poeta italiano esule in patria che ha deciso di condividere il proprio destino umano e letterario con altri esuli stranieri.
La voce alta e drammatica, quasi oracolare, che si esprime nei suoi versi sovrasta le rovine di un mondo arcaico e rurale, divenuto memoria di se stesso. Un mondo che sta scomparendo per lasciare posto all’inesorabile avanzata dell’alienazione urbana, specchio opaco di una globalizzazione disumanizzante. Il disagio e il male di vivere che vengono generati dal conflitto perenne fra queste due realtà e modi di essere segnano una profonda, terribile lacerazione del tempo vissuto; come pure la sensazione che la parola poetica sia incapace di rimarginare le ferite. Fuorivia, scritto in uno stato di elevata percezione, è in fondo un esilio dentro gli inferi dell’io centrale del poeta, laddove i conflitti risorgono in forme e figure inquietanti. Il libro è insieme testimonianza e presagio. Tanto da fare di Manzi l’unica voce, nel panorama della poesia contemporanea italiana, capace di rinnovare la tradizione visionaria.
Da sempre al di fuori delle gerarchie ufficiali, Manzi appartiene all’ultima generazione dei classici italiani che fanno grande la poesia di questo Paese, ormai costretto dagli spasmi di una grave crisi sociale e morale a ripensare i limiti e l’orizzonte della modernità.
Gëzim Hajdari
Poema epico e lirico, Le Indie si snoda in sei canti o quadri che ripercorrono e decolonizzano uno dei racconti fondatori della modernità, ovvero il viaggio di Colombo e tutto quanto ne seguì: La Chiamata, Il Viaggio, La Conquista, La Tratta, Gli Eroi, La Relazione. La prima edizione (1956) aveva come sottotitolo Poème de l’une et l’autre terre, a rimarcare come il mondo e la poesia che cerca di raccontarlo siano contrassegnati dalla molteplicità, e dalle connessioni che mettono in contatto il molteplice. “L’una e l’altra terra” sono l’Europa e l’America, ma pure l’Africa e l’America se assumiamo la prospettiva degli schiavi deportati; sono anche le stesse Indie, il cui nome è significativamente plurale e non viene mai a coincidere con la terra che con esso si intende designare. Le Indie sono quindi il luogo dove la realtà si moltiplica, si fa inafferabile e diviene altro da sé, in modi tanto distruttivi quanto liberanti (le rivolte anticoloniali assenti dai nostri libri di storia, la Relazione che ha creolizzato corpi, lingue e culture). E tra le terre, oltre le terre, troviamo nel poema l’infinito movimento del mare, che apre e destabilizza ogni prospettiva dalla quale si cerchi di afferrare il mondo. Il desiderio sulla terra è tentato dalla conquista, ma sul mare diventa domanda: «Nel cuore dell’uomo questo desiderio, dove porta, già così azzurro, / tra l’una e l’al- tra terra?». Con il suo dire sovrabbondante, sontuoso, eppure ritmato da scarti e crescite e deviazioni, Glissant ci offre un magnifico esempio di quel che lui stesso chiama “memoria profetica del passato”, un riattraversamento della storia che ci porti verso il nuovo. Ed esplorando i desideri, i lutti, le aspirazioni e i drammi di questa storia, Le Indie ci parla di noi, «nel mezzo del cammino delle razze, rimestandole».
Poema epico e lirico, Le Indie si snoda in sei canti o quadri che ripercorrono e decolonizzano uno dei racconti fondatori della modernità, ovvero il viaggio di Colombo e tutto quanto ne seguì: La Chiamata, Il Viaggio, La Conquista, La Tratta, Gli Eroi, La Relazione. La prima edizione (1956) aveva come sottotitolo Poème de l’une et l’autre terre, a rimarcare come il mondo e la poesia che cerca di raccontarlo siano contrassegnati dalla molteplicità, e dalle connessioni che mettono in contatto il molteplice. “L’una e l’altra terra” sono l’Europa e l’America, ma pure l’Africa e l’America se assumiamo la prospettiva degli schiavi deportati; sono anche le stesse Indie, il cui nome è significativamente plurale e non viene mai a coincidere con la terra che con esso si intende designare. Le Indie sono quindi il luogo dove la realtà si moltiplica, si fa inafferabile e diviene altro da sé, in modi tanto distruttivi quanto liberanti (le rivolte anticoloniali assenti dai nostri libri di storia, la Relazione che ha creolizzato corpi, lingue e culture). E tra le terre, oltre le terre, troviamo nel poema l’infinito movimento del mare, che apre e destabilizza ogni prospettiva dalla quale si cerchi di afferrare il mondo. Il desiderio sulla terra è tentato dalla conquista, ma sul mare diventa domanda: «Nel cuore dell’uomo questo desiderio, dove porta, già così azzurro, / tra l’una e l’al- tra terra?». Con il suo dire sovrabbondante, sontuoso, eppure ritmato da scarti e crescite e deviazioni, Glissant ci offre un magnifico esempio di quel che lui stesso chiama “memoria profetica del passato”, un riattraversamento della storia che ci porti verso il nuovo. Ed esplorando i desideri, i lutti, le aspirazioni e i drammi di questa storia, Le Indie ci parla di noi, «nel mezzo del cammino delle razze, rimestandole».
La poesia di Mustafaj nasce nelle Bjeshkët e Nëmuna (Montagne Maledette), nel nord dell’Albania, nel pieno inverno della dittatura comunista albanese.
Il verso di Mustafaj sembra pacato a una prima lettura, epico come nei racconti degli antichi, senza grida né enfasi. Ma è solo un inganno, perché rileggendo con l’attenzione dovuta si scopre che sotto l’essere del suo verbo abitano echi, suoni, ritmi interiori intensi, che penetrano nella memoria del lettore accorto, rimanendovi per sempre. È un verso vero e vissuto profondamente, carico di umanità e universalità. Mustafaj sa colloquiare con le cose, dando loro voce e volto, attraverso una prosa poetica che colpisce per la forza e per la bellezza antica e ancestrale. A volte tumultuosa e carica dell’inquietudine quotidiana, la sua poesia si fa carico del dolore e della sofferenza dell’uomo, in attesa di un raggio di luce durante le notti nere, che sembrano non avere mai fine: Non arriverà mai l’alba. Fare il poeta nel cuore della dittatura più feroce del vecchio continente, in cui s’intrecciavano i vivi con i morti, poteva essere una scelta fortunata per i poeti di corte, ma pericolosa per gli “eretici”. Attraverso metafore e simboli ambigui, i poeti tentavano di recuperare la libertà quotidiana perduta. Chi osava spingersi oltre il limite proibito, fissato dalla censura, pagava con la propria vita, “uccidendosi” con la propria poesia.
Il territorio poetico di Mustafaj è un territorio minacciato, abitato da streghe, notti nere, boschi oscuri, lupi mannari, sangue versato… Sono simboli negativi che, come presagi, preavvisano un lugubre destino per il poeta e per la poesia stessa. L’amore come anima del mondo; è la poesia stessa che sopravvive, sfidando qualsiasi oppressione e i recinti di filo spinato. Toccanti sono i versi dedicati alla propria donna e alla madre che, pur essendo assente, è sempre presente accanto al proprio figlio, pronta a proteggerlo, insegnandogli le leggi antiche degli avi malsor (montanari).
È questa la leggenda della nascita del poeta e della sua poesia imponente, dai toni epici ed elegiaci, che assomigliano a una leggenda vivente sorta nel gelido e lungo inverno della dittatura albanese.
[Dalla prefazione di Gëzim Hajdari]
La poesia di Mustafaj nasce nelle Bjeshkët e Nëmuna (Montagne Maledette), nel nord dell’Albania, nel pieno inverno della dittatura comunista albanese.
Il verso di Mustafaj sembra pacato a una prima lettura, epico come nei racconti degli antichi, senza grida né enfasi. Ma è solo un inganno, perché rileggendo con l’attenzione dovuta si scopre che sotto l’essere del suo verbo abitano echi, suoni, ritmi interiori intensi, che penetrano nella memoria del lettore accorto, rimanendovi per sempre. È un verso vero e vissuto profondamente, carico di umanità e universalità. Mustafaj sa colloquiare con le cose, dando loro voce e volto, attraverso una prosa poetica che colpisce per la forza e per la bellezza antica e ancestrale. A volte tumultuosa e carica dell’inquietudine quotidiana, la sua poesia si fa carico del dolore e della sofferenza dell’uomo, in attesa di un raggio di luce durante le notti nere, che sembrano non avere mai fine: Non arriverà mai l’alba. Fare il poeta nel cuore della dittatura più feroce del vecchio continente, in cui s’intrecciavano i vivi con i morti, poteva essere una scelta fortunata per i poeti di corte, ma pericolosa per gli “eretici”. Attraverso metafore e simboli ambigui, i poeti tentavano di recuperare la libertà quotidiana perduta. Chi osava spingersi oltre il limite proibito, fissato dalla censura, pagava con la propria vita, “uccidendosi” con la propria poesia.
Il territorio poetico di Mustafaj è un territorio minacciato, abitato da streghe, notti nere, boschi oscuri, lupi mannari, sangue versato… Sono simboli negativi che, come presagi, preavvisano un lugubre destino per il poeta e per la poesia stessa. L’amore come anima del mondo; è la poesia stessa che sopravvive, sfidando qualsiasi oppressione e i recinti di filo spinato. Toccanti sono i versi dedicati alla propria donna e alla madre che, pur essendo assente, è sempre presente accanto al proprio figlio, pronta a proteggerlo, insegnandogli le leggi antiche degli avi malsor (montanari).
È questa la leggenda della nascita del poeta e della sua poesia imponente, dai toni epici ed elegiaci, che assomigliano a una leggenda vivente sorta nel gelido e lungo inverno della dittatura albanese.
[Dalla prefazione di Gëzim Hajdari]
Finalmente in Italia l’opera poetica di Jean-Claude Izzo, giallista francese tra i più affascinanti del secondo Novecento. Lo scrittore che ha “inventato” il noir mediterraneo e che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.
La voce di Jean-Claude Izzo arriva dal Mediterraneo. «Isola» di acque e terre dalle molteplici civiltà, culture, lingue, di contraddizioni, naufragi e sbarchi, di paure e sbarramenti, di accoglienze e passaggi, – purtroppo oggi ancor più dolorosamente evidenti, – di cui lo stesso poeta esplicita e rivendica, in modo inequivocabile, la sua appartenenza. Izzo, tenendo per mano le due sponde – Oriente e Occidente –, attraverso la poesia diventa «mano tesa fra rive senza ponte». L’opera poetica di Jean-Claude Izzo è pressoché sconosciuta in Italia, e a parte la traduzione di qualche poesia a cura di Luigi Bernardi nel bel volume di Stefania Nardini, Jean-Claude Izzo. Storia di un marsigliese e di qualche altra traduzione sparsa nell’etere è ricordato soprattutto come giallista, l’inventore del noir mediterraneo – la cosiddetta «trilogia marsigliese» composta dai noir: Casino totale, Chourmo. Il cuore di Marsiglia, e Solea – come giornalista, sceneggiatore e per il suo costante e intenso impegno politico. Ma è con la poesia che Jean-Claude Izzo inizia e conclude il suo cammino e d’altronde, anche il nome del suo famoso poliziotto, Fabio Montale, è un omaggio alla poesia (e alle sue origini italiane).
Traduzione di Annalisa Comes
Illustrazioni di Jacques Ferrandez
Erranze, Home page, In vetrina, La poesia di Ensemble, Poesia
Finalmente in Italia l’opera poetica di Jean-Claude Izzo, giallista francese tra i più affascinanti del secondo Novecento. Lo scrittore che ha “inventato” il noir mediterraneo e che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.
La voce di Jean-Claude Izzo arriva dal Mediterraneo. «Isola» di acque e terre dalle molteplici civiltà, culture, lingue, di contraddizioni, naufragi e sbarchi, di paure e sbarramenti, di accoglienze e passaggi, – purtroppo oggi ancor più dolorosamente evidenti, – di cui lo stesso poeta esplicita e rivendica, in modo inequivocabile, la sua appartenenza. Izzo, tenendo per mano le due sponde – Oriente e Occidente –, attraverso la poesia diventa «mano tesa fra rive senza ponte». L’opera poetica di Jean-Claude Izzo è pressoché sconosciuta in Italia, e a parte la traduzione di qualche poesia a cura di Luigi Bernardi nel bel volume di Stefania Nardini, Jean-Claude Izzo. Storia di un marsigliese e di qualche altra traduzione sparsa nell’etere è ricordato soprattutto come giallista, l’inventore del noir mediterraneo – la cosiddetta «trilogia marsigliese» composta dai noir: Casino totale, Chourmo. Il cuore di Marsiglia, e Solea – come giornalista, sceneggiatore e per il suo costante e intenso impegno politico. Ma è con la poesia che Jean-Claude Izzo inizia e conclude il suo cammino e d’altronde, anche il nome del suo famoso poliziotto, Fabio Montale, è un omaggio alla poesia (e alle sue origini italiane).
Traduzione di Annalisa Comes
Illustrazioni di Jacques Ferrandez
Nûr è forse l’opera di Hajdari che più radicalmente introduce una nuova torsione del discorso. Questo è vero, in primo luogo, per l’uso della forma del poema drammatico, che rielabora e intensifica gli snodi conflittuali propri della poesia hajdariana attraverso relazioni sceniche tra personaggi anziché attraverso il “corpo presente” dell’io centrale. In secondo luogo, e in maniera complementare, le figure essenziali della produzione poetica precedente, distribuite tra la sfera di un’esistenza nuda e quella del simbolo, vengono tradotte in una vicenda eroica e mitica che non si limita ad alludere a tratti a una memoria epica, ma attinge direttamente ed estesamente da una parola già detta, condivisa e tramandata: il corpus dell’epica popolare albanese.
I valori etici e le situazioni narrative di quest’ultima, come Hajdari tiene ad affermare nella sua premessa ad uso del lettore italiano, sono intimamente legati alla civiltà del Kanûn, il codice d’onore che dal medioevo fino agli inizi del XX secolo regolò la vita degli albanesi delle montagne. Se i riferimenti alla cultura atavica del paese natale di Hajdari si sono moltiplicati nei suoi libri più recenti, smentendo senz’appello il luogo comune sulla poesia della migrazione come poesia sradicata o deterritorializzata, in Nûr la memoria albanese irrompe con forza inedita e diviene sfondo, protagonista e ragione stessa dell’opera.
Ma la tragedia di Nûr scava e reinventa il passato per ritornare a noi, oggi. Non solo perché è subito chiaro, fin dall’omonimia con il protagonista, che Hajdari espone se stesso nella tragedia, traducendo le lacerazioni biografiche in lacerazioni mitiche, ma anche perché queste ferite sono inscritte su un fondo arcaico e al contempo rivolte al futuro: è la «visione profetica del passato», che deve essere non solo ricomposto storicamente ma anche sognato poeticamente, da soggetti in lotta per le proprie radici, contro le proprie radici (perché riscriverle vuol dire affermare che esse non sono intangibili).
[dalla postfazione di Andrea Gazzoni]
Nûr è forse l’opera di Hajdari che più radicalmente introduce una nuova torsione del discorso. Questo è vero, in primo luogo, per l’uso della forma del poema drammatico, che rielabora e intensifica gli snodi conflittuali propri della poesia hajdariana attraverso relazioni sceniche tra personaggi anziché attraverso il “corpo presente” dell’io centrale. In secondo luogo, e in maniera complementare, le figure essenziali della produzione poetica precedente, distribuite tra la sfera di un’esistenza nuda e quella del simbolo, vengono tradotte in una vicenda eroica e mitica che non si limita ad alludere a tratti a una memoria epica, ma attinge direttamente ed estesamente da una parola già detta, condivisa e tramandata: il corpus dell’epica popolare albanese.
I valori etici e le situazioni narrative di quest’ultima, come Hajdari tiene ad affermare nella sua premessa ad uso del lettore italiano, sono intimamente legati alla civiltà del Kanûn, il codice d’onore che dal medioevo fino agli inizi del XX secolo regolò la vita degli albanesi delle montagne. Se i riferimenti alla cultura atavica del paese natale di Hajdari si sono moltiplicati nei suoi libri più recenti, smentendo senz’appello il luogo comune sulla poesia della migrazione come poesia sradicata o deterritorializzata, in Nûr la memoria albanese irrompe con forza inedita e diviene sfondo, protagonista e ragione stessa dell’opera.
Ma la tragedia di Nûr scava e reinventa il passato per ritornare a noi, oggi. Non solo perché è subito chiaro, fin dall’omonimia con il protagonista, che Hajdari espone se stesso nella tragedia, traducendo le lacerazioni biografiche in lacerazioni mitiche, ma anche perché queste ferite sono inscritte su un fondo arcaico e al contempo rivolte al futuro: è la «visione profetica del passato», che deve essere non solo ricomposto storicamente ma anche sognato poeticamente, da soggetti in lotta per le proprie radici, contro le proprie radici (perché riscriverle vuol dire affermare che esse non sono intangibili).
[dalla postfazione di Andrea Gazzoni]
Per queste Scissure ci si aggira attoniti, sconcertati dal profilo inedito con cui le cose si presentano agli occhi, con l’evidenza e il fascino di una prima scoperta, come se contemplate nel primo giorno della creazione. Una caleidoscopica fuga di mirabili evocazioni. Dopo qualche passo lungo le pagine, ci si avvede che non s’incontreranno ‘storie’, ma che la Storia è un tessuto di bagliori e di enigmi, di semplici occorrenze di quotidiano, che a schegge ci entrano di volo negli occhi e nel cuore. E il lettore ha il compito (non facile, e però accattivante) di ricondurre il tutto a comprensione – esattamente come è chiamato a fare, giorno per giorno, con la sua stessa vita.
Dopo sette anni di attesa, il nuovo libro di Luigi Manzi, uno dei maggiori poeti del nostro tempo.
Collane, Erranze, In vetrina, Poesia
Per queste Scissure ci si aggira attoniti, sconcertati dal profilo inedito con cui le cose si presentano agli occhi, con l’evidenza e il fascino di una prima scoperta, come se contemplate nel primo giorno della creazione. Una caleidoscopica fuga di mirabili evocazioni. Dopo qualche passo lungo le pagine, ci si avvede che non s’incontreranno ‘storie’, ma che la Storia è un tessuto di bagliori e di enigmi, di semplici occorrenze di quotidiano, che a schegge ci entrano di volo negli occhi e nel cuore. E il lettore ha il compito (non facile, e però accattivante) di ricondurre il tutto a comprensione – esattamente come è chiamato a fare, giorno per giorno, con la sua stessa vita.
Dopo sette anni di attesa, il nuovo libro di Luigi Manzi, uno dei maggiori poeti del nostro tempo.